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Il diavolo nell'ampolla
Adolfo Albertazzi






Il diavolo nell'ampolla





LE FIGURINE


– Mulattiere!

Al vicino, che gli chiedeva del suo servizio, rispose con l'impeto d'una coscienza aperta a tutti i doveri e a tutti i pericoli della carica. E per dimostrarne meglio la gravità, aggiunse:

– Addetto al vettovagliamento!

Anche la voce, forte, sonora, era espressione di vigoria.

– Di dove venite?

– Dal Trentino.

– E siete in licenza?

– Sì. Otto giorni di licenza straordinaria. Vado a casa a divertirmi.

Ora sorrise; ma l'ironia si adattava così male a quella sua faccia di uomo sano e florido e a quei suoi occhi chiariti dall'anima schietta e semplice, che gli ascoltatori rimasero incerti.

– Mi è morta la moglie quasi all'improvviso. – Dimenando la testa significava: – Questa doveva capitar proprio a me!

Quando la porticella fu riaperta, che già il treno era in moto.

– Oh! Carlino!

– Oh! Saverio! Sei qui?

Il sopravvenuto atteggiava il volto a mestizia; nell'altro il piacere dell'incontro pareva superar la tristezza dell'occasione.

– Ho viaggiato tutta notte. Sono arrivato, da Verona, a mezzodì, e ho fatto appena in tempo a correre da mio cognato, all'arsenale.

– Rubata! – esclamò l'amico. – Ti è stata rubata, Saverio! Nemmeno il dottore sa capire il come e il perchè della disgrazia, così, d'un tratto.

– Cosa importa saper il come e il perchè? – il soldato disse a voce anche più alta. – È morta, ecco!

– Hai ragione.

Inutile indagare; argomento concluso. Potevan passare ad altro.

– Ditemi, Carlino. Vostro nipote?

– Ferito a una gamba; ne avrà per qualche settimana.

– Me ne rallegro, che si tratti di poco. E gli amici? Otto mesi che non ne ho nuova! Michele Costa?

– È prigioniero.

– Prigioniero! Michele? – La notizia conteneva per lui tale contrasto fra l'idea di prigionia e l'immagine dell'amico spaccone o gaudente, che il soldato scoppiò a ridere. E udendolo e vedendolo ridere, più d'uno, ai prossimi posti, pensò: – Bel dolore ha costui d'esser rimasto vedovo!

Ma il dialogo seguitava.

– E Luigi dell'Osteria Grande?

– Imboscato.

– Figlio d'un cane! E Isidoro?

– È morto; a Bainsizza. Anche Giovanni del Poggio: ha lasciata la pelle in Albania.

Il mulattiere stette un po' a bocca aperta; e soggiunse:

– Io non trovo che morir qui o morir là sia lo stesso. Io preferirei la fine d'Isidoro.

Non tutti eran del suo parere, e sorse una discussione; della quale approfittò l'amico, che stava in piedi, per andar a un posto, in fondo alla carrozza.

– Ehi, Carlino! – Saverio gli urlò dietro. – Vi ringrazio di quel che avrete fatto per la mia vecchia.

E poi volgendosi alla donna dirimpetto a lui:

– Se tutti fossero galantuomini come Carlino, la guerra non ci sarebbe.

– Non ci sarebbero tante famiglie addolorate – sospirò la donna.

Riprese il mulattiere:

– La guerra non si può fare senza ammazzar il prossimo, e non c'è da meravigliarsi che molti abbiano da patire. Non c'è da meravigliarsi che uno si salvi e uno ci resti. Secondo il destino! Un giorno io conducevo la mula su per un monte battuto dalla mitraglia. Tenevo la briglia a man mancina, dalla parte bassa del sentiero. Un colpo, e la mula stramazzò con la testa fracassata. Se ero a mano diritta, il colpo toccava a me. Bene; chi mi avesse detto quel giorno: – Tu l'hai scampata; tua moglie non la scamperà – , gli avrei dato del matto.

Sempre col tono d'uno che narra una storia non sua, il soldato continuò:

– Matto invece sono stato io, dall'altra sera fino a oggi, fino all'ora che ho discorso con mio cognato. L'altra sera io e il mio compagno, Biagini, un toscano, avevamo già caricate le bestie (si andava al reparto, al lume di luna), quando mi consegnarono una lettera. Accendo un zolfanello. Vedo che non è la scrittura di mia moglie; è della mamma. – Uhm! – dico. – Scrivermi la mamma?: m'insospettisce. – Non ci pensare – fa Biagini. – Siamo al Natale e tutte le mamme scrivono ai su' figliuoli. – E non ci pensai più. Tornati, nella baracca ci avevo un pezzo di candela. Lessi. È persuasa? Mi misi in mente che fosse un raggiro di mia madre con qualcuno del Comune per ottenermi la licenza. Anche il certificato di morte mi pareva una fola! Ma oggi ho dovuto credere. Mia moglie il sabato avanti le Feste venne a Bologna a trovar la sorella; stava bene; allegra; il ritratto della salute. Arrivò a casa, e andò a letto, che non era più lei. Mio fratello corse dal dottore, e lei in quel mentre spirava.

Una breve pausa; e dopo:

– Cosa importa saper il come e il perchè? È morta: ecco!

La donna chiese:

– Avete figli?

– Uno; di sei anni. Il giorno che partii, volli mangiare, prima d'avviarmi. Mia moglie – piangeva – cominciò a tagliar del prosciutto. – Basta! – diss'io. E il bambino: – No, mamma; tagliane pur molto, del prosciutto, al babbo, che non ne mangerà più. – Fra poco il bambino mi verrà incontro e mi dirà: – La mamma è morta.

Il vicino di posto guardò il mulattiere: immutato nel viso come nella voce. Solo gli vide una lagrima, ferma, tra ciglio e ciglio, in coda all'occhio.

Allora parlò colui:

– Sapete perchè l'avete perduta, la vostra donna? Perchè era onesta. Le altre, che non si accorano d'aver il marito lontano, quelle, state pur sicuro, non muoiono!

Gli ascoltatori approvarono, e la conversazione prese un andamento piacevole. Saverio rideva non meno degli altri, e più forte.

Nessuno avvertiva in lui un'eccitazione strana: per l'insonnia – tre notti che non dormiva – ; per la fame – dalla sera innanzi non aveva mangiato che una mezza pagnotta – ; per il piacere stesso che, in contrasto con la sua sventura, provava a riudire il suo dialetto, a trovarsi fra gente delle sue parti, in vista ai noti luoghi, lontano dalla vita di guerra. Nessuno, neppure il vicino, dubitava ch'egli non fosse una clamorosa testimonianza del motto: «Chi è morto, giace; e chi è vivo, si dà pace».




Carlino e Saverio discesero alla stazione di San Niccolò. Una stretta di mano; buona sera!, e si separarono.

Il soldato s'incamminò a passo di marcia per la viottola solitaria.

Cadeva rapido il crepuscolo; la luce sfuggiva dalla tetraggine dei campi arati, umidi e neri; dei filari degli olmi scheletriti; della nebbia che celava le montagne e velava di desolazione le cascine e le case sperdute nel freddo. I pappi delle vitalbe coprivano d'una bianchezza funerea le siepi brulle ed irte. E Saverio andava per il fango.

Precorrendo col pensiero rivedeva il fratello, maggiore di parecchi anni, sempre uguale: taciturno, rozzo, e robusto e paziente come i buoi a cui s'affezionava più che agli uomini; rivedeva, invecchiata, la madre; cresciuto il figliuolo. Che smania di stringerselo sul cuore! – Giorgio! Giorgio! – Ma il timore di udirlo piangere, invocar la madre, gli diveniva un senso di peso enorme, addosso.

Eppure aveva seco, nel tascapane, il modo di quetarlo. – Guarda cosa t'ho portato! Un pastorino con l'agnello! – L'aveva comperato a Bologna, sotto il portico della chiesa dei Servi, ove i venditori di figurine da presepio indugiavano sin oltre l'Epifania. Quattro soldi! Per quattro soldi, una volta, se ne avevan quattro delle figure di terracotta.

Il mondo, non c'è che dire, va a rovescio; chi però abbia voglia di lavorare ci troverà sempre da far bene. E la guerra se molti ne porta in su, molti ne porta in basso; calerà il prezzo del terreno, e fortunati quelli che avran capitale da investire in campagna! A guerra finita, lui e il fratello potrebbero lasciar la mezzadria e prendere in affitto un buon podere; e industriarsi col bestiame. Mercante di buoi: era stato il suo sogno fin da ragazzo. Occhio sicuro, astuzia, parola di galantuomo; la frusta in mano, e il portafogli pieno di biglietti da cento.

Così, sognando per arrivare a casa di buon animo, arrivò finalmente a casa.




Il cane pareva impazzito; balzava contro e guaiva; correva a furia intorno e abbaiava; chiamava.

Il fratello, che aveva già rifatto il letto alle bestie, uscì dalla stalla col lanternino acceso. Non si commosse.

– Cos'hai di licenza?

– Otto giorni.

– Va bene. Mi aiuterai a potare.

La madre, abbandonata la polenta al fuoco, spalancò le braccia.

– Quanto aspettare, figliol mio!

– Ehi, mamma!, non voglio pianti – ammonì il soldato entrando. – Pugni al cielo non se ne danno: dunque… E Giorgio?

– L'ho messo a letto; stanco; addormentato. Non sta mai fermo in tutto il giorno!

Il soldato si levò il rotolo del mantello, che aveva a tracolla, e lo depose sul cassone; appiccò la bisaccia a un chiodo; tolse di mano al fratello il lanternino, e dicendo: – Vuotate la polenta, che son morto di fame – salì, per la scala di legno, al piano di sopra. Ridiscese tosto.

– Dorme. È bello. Son contento.

Gli lucevano gli occhi, ma il fratello e la madre finsero di non accorgersene.

Sedettero; i due uomini, alla tavola, la vecchia, sul focolare; e ingoiarono le fette fumanti.

– Hai saputo di Michele Costa? – chiese il fratello.

– Sì, me l'ha detto Carlino in treno.

Allora la madre pigliò coraggio.

– T'avrà detto anche, Carlino, che abbiam fatto quel che abbiam potuto?

– Sì. Non ne discorriamo più.

– E la guerra? – il fratello dimandò, dopo un poco.

Saverio scosse le spalle. C'era ben altro da pensare, da dire! Parlò con voce ferma.

– La mamma è vecchia; e d'una donna giovine in famiglia ne abbiam bisogno. Prendi moglie tu.

– No – rispose il fratello, risoluto. – Tribolare piuttosto.

– Ne prenderò un'altra io. Ma badate: una come quella non la trovo più in tutto il mondo.

– È vero – confermò la madre. Soggiunse: – Sinchè io camperò, una matrigna non lo tratterà male, il bambino.

– E dopo – esclamò torvo Saverio – non mi mancherebbe un randello da romperle su la schiena se non rispettasse il mio sangue!

La vecchia si alzò in fretta; andò a deporre il piatto nel secchiaio; si asciugò gli occhi col dorso della mano, e Saverio finse di non accorgersene.

– Adesso – il fratello disse riempiendo la pipa – ti mostro i conti. Li ha fatti Carlino iersera. Due volte è venuto per consolarci.

E tornò con le carte. Saverio accostò a sè il lume a petrolio e cominciò a rintracciare e sommare rendite e spese. In fine, le spese del mortorio: tanto, nelle torce; tanto, nelle messe; tanto, nel resto.

– Anche i preti non scherzano! – commentò.

Ma le rendite del grano e dell'uva erano grandi.

– Ti scaldo il letto? – propose la madre.

– No, vado a dormir nella stalla.

E riacceso il lanternino, i fratelli uscirono.

Nella stalla Saverio guardò ai buoi giacenti. Fe' rialzare i manzoli nuovi; li palpò; li accarezzò.

– Belli! Da guadagno.

Poscia l'uno si gettò su la branda; l'altro – il soldato – nel mucchio di paglia: vi si immerse; se ne ricoperse con un piacere di ragazzo.

E il russare degli uomini non tardò a confondersi col respirar fondo dei buoi.




Allorchè, la mattina dopo, Saverio entrò in casa, nel camino fiammeggiava un bel fuoco.

– Mamma, preparatemi i vestiti, da mutarmi.

– E alzerò Giorgio – disse la vecchia sorridendo. – Sgambetta per tempo.

Il soldato rimase solo. La cucina gli sembrava più ampia e più nera nel contrasto delle due luci: la fiamma rossa e riverberante, e l'albore, che entrava per la finestra appannata.

E d'improvviso, in quello schiarire incerto, ebbe dinanzi a sè l'immagine della morta: così evidente da chiamarla. Volse il capo; e ugualmente improvviso gli tornò un ricordo. Il dì che si sposarono, in municipio, uno di coloro che scrivevano esclamò, serio: – Bella coppia di sposi!

Un brivido gli corse per la vita; sentì una colpa nel ripensare a lei bella senza pensare a lei buona. E cominciò a parlare, a mezza voce, quasi ci fosse qualcuno ad ascoltar la lezione della sua esperienza.

– Alla passione non si comanda. È nel cuore? E anche se non ci date mente, anche se discorrete d'altro, anche se scherzate e ridete, anche se non ve ne accorgete, a poco a poco, la passione, dentro, cresce cresce…

Si rivide nel tragitto a piedi sino al deposito, nel tragitto in camion sino a Verona, nel viaggio da Verona a Bologna, e da Bologna a San Niccolò, in piacevole compagnia.

Chi avrebbe mai detto che il cuore, intanto, gli si riempiva in questa maniera? E lungo la strada da San Niccolò a casa non s'era divagato facendo castelli in aria? E nell'incontro col fratello e con la madre, e durante la cena non aveva provato come l'alleggerimento d'un peso? Non aveva dormito tutta la notte, di gusto, senza sogni? Ma intanto, a poco a poco, la passione cresceva, seguitava a riempirgli il cuore. E quando è pieno, basta un niente perchè trabocchi.

No! Si contenne. Il bambino, di sopra, chiamava: – Babbo! babbo! – ; scendeva.

Gli mosse incontro; lo prese per mano gridando: – Vieni a vedere, Giorgio, cosa ti ho portato!

E con lui andò a staccar dal chiodo la bisaccia; si sedè, con lui accanto, alla tavola, presso alla finestra; introdusse la mano nel tascapane, adagio, per aumentar l'aspettazione gioiosa.

Ma – addio pastorino di terracotta! – : la mano ne toccò due, tre pezzi.

Forse aveva sbattuta la bisaccia salendo in treno, o scendendo? Non importava saper il come e il perchè; era rotta, ecco!

Ne ritrasse i pezzi, li osservò, e allora – basta un niente quando il cuore è troppo pieno – allora stringendo di più a sè il figliuolo col braccio destro, distese il braccio sinistro su la tavola, vi appoggiò la fronte e ruppe in singhiozzi.

Il bambino taceva. Stupito, considerava la figurina infranta e il padre piangente. Ma si divincolò.

– Aspetta, babbo! Lasciami andare! Lasciami andare!

Sfuggì, salì a gran passi la scala. Tornò che lo sfogo non era cessato.

– Guarda, babbo! Guarda! Questa è più bella della tua! Me la portò la mamma da Bologna, prima di morire. Non piangere! te la dò a te. Prendila.

Il padre sollevò il capo; sorrise tra le grosse lagrime; scorse negli occhi del figliuolo, mentre gli offriva la figurina, gli occhi della sua donna; e prese a tempestarlo di baci.

E il bambino si mise a piangere anche lui.




IL CAMICIOTTO ROSSO


Un discorde mugliare: richiami angusti di vitelli, come impediti da un soffocamento; aperte, disperate invocazioni di madri; risposte lunghe, come estratte dal torace profondo, di buoi. E uno strepito di campanacci e un romore di voci umane.

Sotto l'ombria dei tigli e delle acacie arboree l'agitazione delle bestie e degli uomini da lontano appariva confusa di bianco e di scuro; lenta, folta. Ma a penetrarvi si scorgeva un comporsi e uno scomporsi di gruppi nelle vicende del mercato; un diradar della folla quando, a ogni prova di compera, si facevan andare le paia che i garzoni tiravano per le mordacchie. I sensali schioccavan le fruste; frustavano seguendo per alcuni passi; e arrestandosi nel dar l'ultimo colpo, piegavano innanzi la persona e la risollevavano quasi a ritirarsi dagli animali lasciati in libero movimento.

– Guardate!

Cominciava l'esaltazione dei pregi; la speculazione dubitosa dei difetti e dei vizi; e mentre i venditori attendevano con le braccia conserte o le mani aperte sul petto, il pollice entro i giri del panciotto, i compratori esaminavano a fatica i denti, sorridevano al vecchio inganno delle corna ingiallite e lustrate con olio e mallo di noce, scostavan le moscaiuole per veder del tutto la quiete degli occhi, tastavano le gambe ai malleoli se non celassero vesciconi, raccoglievano in pugno la pelle del fianco per accertarne la morbidezza, accostavano l'orecchio ad ascoltar il respiro e il cuore. E venivan, dopo, le chiassose richieste e le proposte commentate da bestemmie, da risate, da gioconde contumelie. Finchè il sensale tratteneva per un braccio l'acquirente che fingeva di voler scappare; afferrava sotto il braccio o col braccio dietro al dorso il venditore, che si fingeva irremovibile, e trascinatolo in disparte, gli parlava sottovoce e lo riconduceva all'altro. Nuova richiesta; nuova proposta.

E si ripeteva la disamina; e si trovavano non abbastanza diritte o asciutte le gambe, non perfetto l'appaiamento. Intorno, i curiosi aspettavano. Poi, all'ultima proposta del sensale, avanzavano faccendieri e amici a sospingere il braccio del venditore, il braccio del compratore; e le due destre s'impalmavano che l'accordo non era ancora pieno. Con dinieghi aspri si svincolavano le mani; con qualche piccolo rialzo e ribasso di prezzo, concesso a stento, si riprendevano. E se, dopo tanto, il contratto era concluso, che strapponi lo consacravano! Il sensale da un lato, gli amici dall'altro, con ambedue le mani premevano alla poderosa, imprescindibile stretta finale.




Fra i paltonieri che al mercato cercavano di buscar qualche soldo e tra gli spettatori più attenti lo Scricco non mancava mai, da poi che era tornato in paese. Ma non infastidiva nessuno. Là in mezzo sentiva meno la fame e si saziava di innocua invidia e di una speranza che solo nel suo segreto si arrovellava in minaccia. Perchè, uscito dal penitenziario dopo la lunga condanna, non l'avevano commosso troppo i mutamenti del mondo: i traffici intravveduti alle stazioni ferroviarie, i transiti delle biciclette e delle automobili per ogni strada, le fabbriche sorte anche nel paese nativo non gli avevano distolto l'animo dalle rimembranze per amareggiarlo con lo spettacolo di ricchezze e soddisfazioni impensate, di una felicità ignorata. Per lui i beni grandi e invidiabili restavan quelli per cui aveva ceduto alla colpa e sopportata la pena; erano i campi verdi e solatii; erano le case ove i sacchi di frumento, di frumentone e sementi si addossavano lungo la loggia ed ove fermentava l'uva nei tini enormi; erano le stalle ove non una delle dodici poste si lasciava mai vuota.

Ah, il sogno della sua giovinezza! Accumular denaro che bastasse all'acquisto di un pezzo di terra, e di là estendere possedimento e fortuna, e conquistar la ricchezza che non muta per mutar di tempi e di progressi e di macchine; ed essere felice!

Invece, ecco: ricettando e rivendendo le cose rubate, aveva perduto tutto; resistendo alla forza, aveva aggravato il delitto; tacendo ostinatamente, sempre, il nome dei complici e salvando il maggior colpevole, aveva aggravata la condanna su di sè. Diciotto anni! E intanto Sandro Molenda, Sandro il ladro, il maggior colpevole che egli aveva salvato col silenzio, si era fatto ricco lui. Possedeva fondi e bestiame!

E tutti lo rispettavano. E scorgendo al mercato chi l'aveva salvato dalla galera, non dava segno di riconoscerlo. Temeva. Ma verrebbe l'ora di comparirgli dinanzi, guardarlo in faccia e dirgli: – Son qui!

L'occasione venne il dì che Sandro Molenda contrattava un bel paio di bestie con un contadino di Romagna bassa. Quando chiese: – Son fidi? – , il venditore rispose: – Fidi – ; e, volto l'occhio in giro, fe' cenno a quello che tra i presenti gli parve prestarsi meglio alla prova. Poco più alto di un ragazzo, spelazzato nella faccia strana, in testa un cappellaccio da risaiolo, lo Scricco si avvicinò. Con vecchia esperienza palpò nel collo, l'un dopo l'altro, i mirabili buoi; li grattò tra le corna; avvicinò il volto ai musi abbassati tirando la cavezza; tolse le mordacchie: non si muovevano. Fidi! Guardavano lontano, come in uno stupore di sogno perduto.

I due tentarono, strinsero il contratto.

– Ve li guido a casa io? – disse lo Scricco a Sandro, piantandogli gli occhi in faccia, appena avvenuta la compera.

Quasi non l'avesse mai conosciuto o lo avesse sempre conosciuto per galantuomo, Sandro disse:

– E tu guidali.

Poi si scostò col sensale e il venditore; rimise in tasca il grosso taccuino; e si rivolse:

– Avvìati, che ti raggiungo.

Un amico gli strizzò l'occhio. Mormorò:

– Li hai consegnati a buone mani!




Con il cavallo al passo dietro i buoi che lo Scricco conduceva, Sandro Molenda trovava sollievo in un sospetto che altra volta gli sarebbe stato gravoso.

Quei due animali così belli e forti e bene appaiati, da esposizione, li aveva comperati per meno di quanto valevano in apparenza. Qualche difetto dovevano averlo. Quale? Li considerava; li immaginava sotto il giogo, a timone del carro o dell'aratro: quale dei due gli sfigurerebbe?

Ma perchè impensierirsi se aveva agio a sperimentarli, e otto giorni di tempo al referto e alla restituzione? Perchè confondersi in quel pensiero? Lo minacciava ben altro pericolo: un pericolo tale che la mente rifuggiva dal chiarirlo e il cuore se ne angosciava quasi a una oscura rovina, a un disastro travolgente, mortale. L'energia e l'astuzia che l'avevano tirato fuori dal fango, che nelle prime furfanterie l'avevan difeso dai pericoli e dalle paure, che l'avevan sospinto, dopo, a camminare per la via diritta, lo sosterrebbero ancora. Voleva! Ma intanto non poteva concepire l'azione liberatrice se non afferrando, fermando l'idea che dal dì che aveva riveduto lo Scricco gli era balenata tremenda. Non c'era scampo; o non lo soccorreva, l'antico complice, e lo Scricco avrebbe presto o tardi rivelato a tutti l'antica complicità, la generosità che non riceveva compenso; lo soccorreva, e la gente chiederebbe per che vincoli egli fosse tenuto a un avanzo di galera, e qualcuno rinvangherebbe il passato e scoprirebbe il principio di quella fortuna che ingelosiva gli uguali d'un tempo e i nemici d'adesso. Nessuno scampo… finchè il complice, che aveva scontato per lui, viveva. Diciott'anni! Pareva ieri; e una denunzia sarebbe forse ancor valida! Diciotto anni, a Portolongone, a Castelfranco; ed era tornato, quel miserabile, a guardarlo in faccia e a dirgli con gli occhi: – Son qui. O mi aiuti, o ti smacco!

Ma che varrebbe comperarne il silenzio? Dimostrando obbligazione a un galeotto non dimostrerebbe che ladro era stato anche lui?

Così Sandro Molenda – lo saprebbe tutto il mondo – aveva fatti i quattrini. Ladro! Nessuno scampo finchè lo Scricco viveva!

… D'improvviso, al passare d'un biroccino, i buoi balzarono; e lo Scricco fece appena in tempo a scansarsi, a trattenerli.

Sandro strinse gli occhi. Nel riflettere raccoglieva sempre lo sguardo sotto le grosse ciglia. Dunque erano ombrosi? No: uno si era spaurito alla mossa repentina dell'altro, e l'altro, il destro, aveva dato un balzo innanzi come per assalire, di furia.

Allora Sandro rincorse con lo sguardo il biroccino che era oltrepassato; vide e disse: – Ho capito. – Avevano cercato d'ingannarlo nella compera, e per la rabbia si mordeva le labbra; sfogava il segreto sgomento con imprecazioni a mezza voce contro il venditore.

Se non che, a poco a poco, spianò il viso; gli rifulsero gli occhi e le idee torbide scomparvero quasi al seguire di una vivida speranza, o al risolversi dell'animo in un savio proposito.

E quando furono a casa il bifolco e gli altri uomini ammirarono i buoi. Sorridente, senza interloquire, lo Scricco ammirava tutto intorno, e sembrava lieto. La casa, tozza e massiccia, attestava uno stabile benessere; la cascina era gonfia di fieno e di paglia; il campo arato, tra i diritti filari, aveva le zolle nere di concime, al sole. Sotto il portichetto una delle nuore allattava un bambino paffuto; la reggitora, nell'aia, diffondeva palate di mondiglia a una moltitudine di galline e pollastri, faraone e anitre.

– A te! – chiamò Sandro contando pochi soldi e porgendoli allo Scricco. Questi li intascò; disse: – Vi saluto, gente! – ; e se ne andava. Ma si fermò là, dove, presso la catasta di legna e di fasci, erano ammucchiate le zucche per i porci.

– Vuoi una zucca? – gli chiese a voce alta Sandro, per ridere.

Rise anche lo Scricco tornando indietro; e quando gli fu presso disse a mezza voce:

– Fareste meglio a tenermi qua da voi, per garzone.

L'altro strinse gli occhi fissandolo; poi rispose:

– E io ti tengo.




Così lo Scricco fu contento. Cominciata la vendemmia, accettò volentieri di portare con gli operai più robusti i cesti e i bigonci; e sapendosi da che parte veniva, i compagni l'incitavano a raccontare. – Cosa facevi in collegio? Come ci campavi? Stavi allegro? – Egli, durante le soste dell'opera, raccontava; teneva allegra la compagnia per il modo con cui esaltava le delizie del reclusorio. Cantava anche a squarciagola una canzone che aveva sommessamente imparata a Castelfranco; e ridevano, sebbene fosse una canzone da piangere.

Ma per il campo lo Scricco si meravigliava e godeva – e non lo diceva – delle piccole cose che ritrovava dopo tanti anni, e che gli ridestavano impressioni di sogni avuti là dentro, nella cella, alle notti grevi.

Allodole trillavano invisibili contro il sole; cincie e lui si chiamavano, mai stanchi, d'albero in albero; le passere frullavano a frotte. Nei prati, i fiori d'inverno rompevano di lilla le verdi distese, brillavano gocce di guazza; candide famiglie di funghi spuntavano dalle radure. Si spandeva lontano l'odore dei pioppi. E al sole la dolcezza dell'aria faceva ricordare i giorni più tristi, ma passati per sempre.

Frattanto con cautela, in segreto, il padrone si era accertato del vizio che aveva uno dei buoi acquistati da poco. Come aveva dato un balzo al passaggio di quel biroccino su cui era una donna col fazzoletto rosso, la bestia infuriava a mostrarle un fazzoletto rosso: tentava assalire cozzando. Terribile, se potesse! Era pericoloso irritarla anche là, legata alla posta. Quando i buoi han l'ira del rosso, nel sangue, guai; per ammazzare si lascerebbero ammazzare.

Pure, Sandro non fece il referto; non ne parlò con nessuno.

E temeva se ne accorgesse il bifolco.

E fece fretta al sarto che, a norma dei patti, venisse a trar di cenci il garzone. Comperò anche, per il garzone, la flanella da fargli un camiciotto; rossa; e lo cuciva una delle nuore.

– Vi nomineremo Garibaldi – dicevano ridendo le donne.

Allo Scricco pareva di tornare ragazzo, quando aspettava ansioso il giorno della festa che indosserebbe il vestito nuovo, la camicia nuova.




E fu un giorno di festa. Tutti, fuor che lor due – reggitore e garzone – erano ai vesperi. Giuocata che ebbero una partita alle bocce – la vinse lo Scricco – , entrarono nella stalla; lo Scricco a prender la sacchetta per andare alla foglia; Sandro per salir dalla botola nella cascina a dormire – disse – un bel sonno, tra il fieno.

Ma appena fu disopra, il padrone ridiscese, svelto.

Ascoltava allontanarsi la voce, che cantava la canzone di Castelfranco e, interrotta, rispondeva a uno che moveva parola dalla strada. Quindi sciolse, Sandro Molenda, il bue insano; lo spinse fuori della posta; lo avviò fuori della stalla, guatando (il camiciotto rosso non era a metà della capedagna); si nascose, svelto.

E pochi istanti passarono, eterni.

Chi non crederebbe a una disgrazia? Il bue insano (chi ne aveva colpa?) si era slegato, era scappato; e lui, accorso subito – troppo tardi – alle grida.

Ecco.

– Correte, gente! – gridò l'uomo che aveva mosso parola dalla strada.

– Madonna, aiuto! – lo Scricco gridò: una volta sola.

– Aiuto! – ripetè Sandro Molenda accorrendo con un forcale: – Aiuto! – E giunse… – troppo presto? – : no.




LA CASSAFORTE DI DON FIORENZO


Quando don Fiorenzo fu in fondo alla chiesa, si voltò, disse a bassa voce: – Signore, ve li consegno a Voi! – ; e segnatosi con la solita rapidità, uscì.

Il cielo schiariva. Pallidamente, il sole intiepidiva l'aria invernale. E il prete si mise a sedere sul gradino per riscaldarsi un poco al sole e quasi per rischiararsi lui pure dentro, nell'animo, che una commozione strana conturbava: di letizia amareggiata da un prossimo timore; di gioia impedita da una persistente gravezza.

– La mia cassaforte! – pensò; e sorrise. Ma il pensiero gli ricadde inerte, ed egli restò a lungo così, seguendo con lo sguardo la vicenda della nuvolaglia più o meno tenue, non ancora trapassata nè aperta da raggi del tutto vittoriosi.

Finchè, grazie a Dio, irradiò una vivida spera.

– Mille e settecentocinquanta lire riscosse allora allora, calde calde. Mille e settecentocinquanta! Che somma! Che cordiale! Ah!, i quattrini, hanno proprio il vigore, l'ardore d'un cordiale che risuscita! – E questa volta rise di gusto, e si diede a pensare rinvigorito, infervorato, franco. Ne aveva abbastanza; finalmente non avrebbe più un centesimo di debito, con nessuno al mondo! Finalmente potrebbe spendere senza angustia per una veste (e si guardò la veste rossigna e tignosa), per un paio di scarpe (e si guardò a quelle scarpe). Finalmente potrebbe cavarsi qualche onesta voglia senza paura! No? Gli arriverebbe addosso l'Americano, suo fratello, con la solita burbanza, con la solita prepotenza, con i soliti assalti? – Che prete sei? Dove hai nascosti i quattrini che hai riscossi da Bisaccia? Dammeli! Ne ho bisogno! Li voglio! Bada!..

– No! non te li dò! Trovali!; e se li trovi, prendili! Cadrai fulminato!

Una pausa. Quindi don Fiorenzo rispose forte a suo fratello come l'avesse davvero lì davanti, trattenuto dalla tremenda minaccia; e si sfogò, finalmente.

– Che prete sono? Un prete che ha sempre fatto il suo dovere; un galantuomo, sono, io, che ha sempre sofferto in lite con la miseria!

Sempre! E adesso che ho quel che ho, un capitale mio, tutto mio (un biglietto da mille, stupendo; uno da cinquecento, sudicio, ma stupendo anche lui; due da cento, del Banco di Napoli, belli e buoni; due marenghi d'oro lucidi e sonanti che consolano a toccarli, e una carta da dieci per giunta), adesso che posso rifiatare, io, fratello, non ti scongiuro più a mani in croce di non rovinarmi, di non sacrificarmi, di non rubarmi, e ti domando, io, a te: – Che fratello sei? che cristiano sei? che uomo sei? E ti dico:

Quando io digiunavo per tirar innanzi gli studi e arrivare a dir messa; quando nostra madre rompeva il digiuno a fette di polenta, tu eri già in America a far fortuna, e non mandavi un soldo, che è un soldo, a casa, mai; e affrettavi con la tua condotta, col tuo silenzio, coi tuoi misteri, la morte di quella santa! Che Dio ti perdoni! E quando sei tornato e mi hai veduto qui, nella parrocchia più misera, più trista della diocesi, e mi hai veduto nelle spese e nei debiti – la cascina, bruciata, da rifare; il fondo da bonificare; la vigna da ripiantare, da scassare, da curare – , sei venuto forse ad aiutarmi? Ti sei dato, invece, alle gozzoviglie in paese, laggiù, perchè ti credessero un gran signore e ti dicessero l'Americano; ti sei mangiato, bevuto, giocato tutto. Spassi e bagordi! Donnacce! Faraone e goffetto! E io non conosco nemmeno le carte! Poi, dopo: – Fiorenzo, prestami cinquanta lire, cento lire! – Non le avevo: il capomastro da pagare; il solfato da pagare; la banca da pagare. Povero me! E tu a rimproverarmi: – Che prete sei? – A minacciarmi: – Bada che sono stato in America! – Come per spiattellarmi che in America ne hai fatte di peggio. Dio ti perdoni! E appena in paese ti informavano che avevo venduto qualche cosa, súbito mi correvi addosso, a martirizzarmi. – Dammi i denari!

Io: – No! – E me li hai portati via: più di una volta; dal canterano, di dentro il pagliericcio, di sotto i mattoni. Ladro! che Dio ti perdoni.

A tal punto la fosca immagine fraterna sembrava cedere, sopraffatta. Ma risollevava il capo. Domandava: – Mille e settecentocinquanta franchi?

– Sì! E questi non me li becchi! Questi sono in una cassaforte, mio caro, che non si tocca senza tremare. Questi li ha in custodia un carabiniere che ferma le mani e le gambe anche di chi è stato in America! Próvati; cadrai fulminato! —

Non c'era da ribattere. L'Americano sembrava allontanarsi intimidito da un sacro spavento. E dileguava.

Don Fiorenzo oramai si sentiva libero e tranquillo; guardò nella realtà.

Gli olmi terrei e squallidi sfilavano con le vecchie braccia aperte, quasi a reggere un peso grande, e reggevano due o tre esili rami. Tra gli alberi, in un punto, l'acqua del rio specchiava, dentro una luce opaca, la sponda di contro: scolorita; brulla. Ma sollevandosi e ondeggiando, la nebbia scopriva a poco a poco tutta la costa e svelava il verde vivo del grano. E anche l'aria si mosse. Lì dinanzi le foglioline dell'erba tremarono, piegarono, brillarono inargentate nel riflettere il sole che or sì or no le colpivano a pieno. Le galline beccavano nel fosso, tra le foglie morte, e di tanto in tanto, mentre si parlavano a grassa voce, ergevano il collo e la testa, per ascoltare e occhieggiare. Una balzò fuori. Bene incappottata di piume, cercò luogo da far covino al sole, e, sbattute le ali, si beò della polvere che le fumava dintorno. Garrivano i passeri; si chiamavano i ragazzi lontano. E una figura di donna sorse improvvisa alla riva, nera e lieve quale un'ombra; si colorì nella gonna, nel fazzoletto che le copriva quasi tutto il volto; e súbito disparve, per ricomparire e disparir poco dopo.

– L'Assunta che raccoglie la mia e la sua cena – pensò don Fiorenzo. Povera vecchia! Quanto le doveva! Da anni lei e il figlio Andrea condividevano la sua povertà; nè essa si lamentava: si lamentava Andrea, mal rimunerato del triplice ufficio di campanaro, becchino e vignaiuolo, ma essa lo quetava dicendogli: – Quando il curato ne avrà, ce ne darà, anche a noi. È un santo.

Ora il curato ne aveva… Dargliene?

– Faremo un buon desinaretto il primo dell'anno – pensò don Fiorenzo con agevole trapasso. – Una bella mangiatina, fra tre giorni.

E sorrise, indulgente a sè stesso, alla sua debolezza. In verità, per resistere alla gola aveva patito più che per ogni altra tentazione e contrizione; forse perchè aveva patito tanto da ragazzo! E riebbe il senso doloroso e strano d'allorchè, coi libri sotto il braccio e le mani nelle tasche vuote, si fermava in città, davanti alle vetrine dei pasticcieri e alle botteghe dei fruttaioli. In uno stupore avido assaporava con gli occhi, con l'anima le ignote dolcezze; e quelle delizie inafferrabili gli mettevano nel sangue e nei nervi come una esasperazione e quasi uno spasimo; da piangere. Più tardi aveva costrette in sè voglie ben più sostanziali ma non minori. Oh un cappone arrosto! E i capponi bisognava venderli. Oh i cappelletti in brodo! E il riso era la minestra dei dì solenni. Oh una torta vanigliata! E grazie se gliene toccava, rare volte, alle feste d'altre parrocchie!

I colleghi non scorgevano che fatica egli durava a contenersi nei loro pranzi e a ingoiar acquolina. Piuttosto essi lo accusavano di poca sollecitudine, di poco zelo nel suo ministero.

A torto? del tutto? No? Forse no. Perchè… perchè egli non era stato abbastanza sincero nel confortare gli infelici sentendosi più infelice di loro; non era stato abbastanza ardente e puro nei riti essendo angustiato sempre dagli affari e dai debiti, quando non erano i terrori delle cambiali in scadenza, delle citazioni e dei sequestri.

Maledetti i quattrini!, allora… Ma adesso, oh!, adesso che gli ridavano la pace e la gioia, eran benedetti, dentro quella cassaforte, anche dall'invulnerabile custode!

– Signore, mi raccomando a Voi! – ripetè don Fiorenzo; e nell'invocazione, congiunse al desiderio d'essere perdonato delle sue mancanze, la piena fiducia di meritar tuttavia aiuto e difesa. Quindi tornò a guardar fuori di sè.

Il sole risplendeva libero, ora, d'ogni velame; con raggi vibranti di vita inesausta rianimava tutte le cose intirizzite, assopite, stinte, spogliate, strinate dal freddo, e ai suoi raggi correva in tutto, sensibilmente, una aspettazione benefica: di fronde e foglie negli alberi, di acque chiare nel rio, di fiori tra l'erba, di spiche sulla costa, di grappoli nella vigna, di opere e di canti agli uomini.

Potenza di Dio! Questo granellino di polvere sperso nell'infinito, che dicono sia la nostra terra, come è grande!, che portenti racchiude!

Quante energie! Quante creature! Quante forme diverse di erbe e di fiori, di colori e profumi! quante sorgive limpide e fresche! quante messi e granaglie! quante sorti di uva bianca e nera, e che vini!

Nella ingenua ignoranza pareva al povero prete d'essere improvvisamente illuminato quel giorno da una miracolosa rivelazione.

Per la prima volta immaginava con anima partecipe la gioia del vivere in ogni cosa vivente. Gli pareva di tornare nel mondo dopo esserne stato escluso fin dall'infanzia, e di comprendere, di vederne solo ora le segrete leggi di armonia naturale ed arcana. Mai, mai aveva riflettuto così sulle semine che riposano nell'inverno e al lento sviluppo dei germi e al verzicare; mai aveva pensato che le creature vegetative fossero uguali, nell'immensa voluttà dell'esistere, alle animali, alle umane; e tutte uguali nell'amplesso di Dio. Mai, mai aveva pensato alle forze fecondatrici e vivificatrici e pensato anche, così, all'unico palpito universale, al totale amore profondo e sublime.

E questo piacere che aveva adesso dalla mente e dal cuore, questa coscienza di penetrazione, la quale pareggiava lui, povero prete ignorante, allo scienziato e al sapiente, a poco a poco lo turbava, l'affannava come un astemio che teme di inebriarsi e si inebria quasi senza volere.

Ne resistè. Provò il bisogno di espandere liberamente quell'intima gioia; ebbe voglia di cantare. Ma seguendo a voce sommessa la patetica cadenza dell'inno a Santa Lucia, s'intenerì; dovè smettere, recitare, con la solita fretta, una preghiera. E lo riprese il senso gioioso di prima: anzi più alacre, più copioso, più possente. Gli pareva di sentire il fluido che nutriva le midolle arboree, che a primavera dilatava le scorze e rompeva in gemme; di sentire la virtù che faceva fiorire i bocci, l'irrequietudine vitale che agitava in istrida e voli i passeri, la tranquillità vitale che faceva chiocciar le galline vicine a lui; e sentì da lontano, impetuoso, precipitoso, avanzare il trotto di un cavallo. Avanzava, avanzava. Divenne, istantaneamente, quel trotto, un galoppo furioso, il rombo di cento cavalli sfrenati in una confusione enorme. Una confusione enorme, dentro, nel cuore; dentro nel cervello. Un crollo, uno schianto dell'universo; e il sole rosso, di sangue. – Gesummaria!

Tentò d'alzarsi in piedi. Ricadde.




L'Assunta, che rincasava con una grembiulata di duri radicchi e d'ispide cicerbite, credendo che il curato dormisse, lo sgridò:

– Dorme al sole? Fa male.

Ma accostatasi vide meglio; e si diè a urlare:

– Andrea! Andrea!

… Presto la voce della disgrazia corse dalla canonica alla prima casa; di là, per tutta la parrocchia. In paese portò la notizia il medico: il quale era giunto lassù quando non gli restava che constatare il decesso, per aneurisma. E uno, entrando all'osteria del Gallo, annunziò:

– È morto d'un accidente il curato del Palèsio.

L'Americano stava giocando. Volse il capo; e rimase con le carte a mezz'aria. Appena però Bisaccia, il commerciante, che mangiava in disparte, ebbe esclamato: – Gli ho pagato stamattina i quattrini dell'uva e del grano, ed era tutto svelto! – , l'Americano gettò le carte, si staccò dalla tavola, si raccomandò all'oste:

– Un cavallo, un biroccino, subito! È morto mio fratello!




Sì: suo fratello. Là in canonica, nel letto, scorgendolo quale se riposasse queto e contento, ritrasse lo sguardo; e mentre l'Assunta in ginocchio biascicava il rosario e Andrea smoccolava con le dita le candele che gocciavano, l'Americano tolse dal portapanni la veste e il panciotto, frugò nelle tasche, invano; borbottò parole incomprensibili. Poi mise sossopra quant'era nel canterano e nella cassapanca. Poi disse ad Andrea: – Aiutami!

Levarono il morto dal letto e lo adagiarono su la cassapanca. Ma anche dentro al pagliericcio non si trovò niente. Nè si trovò nessun mattone smosso. Allora lui, il fratello, aggrottando le ciglia, chiese:

– Questa mattina è venuto Bisaccia, il mercante?

Era venuto.

– E dove sono i quattrini?

La vecchia non rispose. Il figlio rispose:

– Non lo so.

– Badate – disse l'altro – che saltin fuori prima di notte, o vi denuncio!

E uscì a rovistare altrove.

– Siamo rovinati! – mormorò Andrea. Ma la madre, guardando a don Fiorenzo:

– Pregherà lui, per noi.




L'Americano, infatti, non osò denunciarli neanche il giorno dopo.

– Mio fratello – pensava – era una gazza; nascondeva tutto. Dove li avrà messi?

– Dove li avrà messi? – si chiedevano a vicenda la vecchia e il figliuolo – . E se non si trovano?

Consultavano trepidanti, l'una le amiche, l'altro gli amici.

– Con sè non li ha presi – diceva Andrea.

E l'Assunta:

– In che rischio ci ha lasciati, se non ci avvia a trovarli!

– Non ve ne mettete – rispondevano amiche e amici – . Male non fare e paura non avere! – Ma tra loro… Oh tra loro, strizzavan l'occhio e mormoravano: – Se li son presi; e fan bene a tenerseli!

Per poco i più arditi non gliela gettavano in faccia: – Meglio li godiate voi che quel birichino!

E quei poveri incolpati capirono che cosa volessero significare certe mosse di spalle, certe occhiate oblique, certi sorrisi sfuggenti, certe parole finte. L'Assunta piangeva e si premeva d'una mano il cuore; e Andrea scampanando, zappando e vangando ribatteva, quasi a persuadere in sè ogni incredulo: – Ladro io non sono mai stato! Ladro, io, non sarò mai!

Nemmeno il cappellano, che era stato mandato per economo dalla Curia, súbito dopo il mortorio, li consolava. Non conoscendoli, sospettava, taceva.

Ma più di tutto li sgomentava il silenzio di quell'altro, del fratello. Uscito dalla canonica all'entrare dell'economo, non si era più veduto lassù.

… E due giorni dopo, all'ultimo dell'anno, che faceva un gran freddo, la chiesa era piena di gente. Aspettavano la messa. Quando uno udì, o credè d'udire uno scalpitìo e un suono di squadroni sbattuti; e susurrò: – I carabinieri!

– I carabinieri! – susurrarono i vicini.

– I carabinieri! – avvertirono di panca in panca.

L'Assunta impallidì; gemè forte: – Signore! e Andrea, che per servir la messa accompagnava il prete dalla sagrestia, fu assalito da un tremito convulso. Intanto alcune donne si inginocchiarono alla balaustra per ricevere la Comunione.

E il prete sale il gradino, depone il calice sull'altare, apre il tabernacolo, si volta a segnar nell'aria, con la mano, la croce: ricorda ad Andrea che deve recitare il Confiteor. Ed ecco; il prete si volta ancora, tende il braccio a trar fuori dal tabernacolo la pisside; ma… Che è? che non è? Un cartoccio. Cade sull'altare, si apre: una di qua, una di là, due cose lucide scappan via, in terra, sonando. Monete? Marenghi? Che è? che non è?

– Miracolo! – esclama Andrea, più bianco in faccia che la sua cotta.

E le donne che sorreggono l'Assunta esclamano:

– Miracolo! Miracolo!

E tutti, in punta di piedi, ansiosi:

– Miracolo! Miracolo! I quattrini di don Fiorenzo!




Ricuperato l'onore, l'Assunta e Andrea si rallegrarono come fossero essi gli eredi del curato.

Solo, si sentivano in credito verso l'Americano appunto per quanto li aveva fatti soffrire; e quando poi egli tornò a prendere le cose dell'eredità, coraggiosamente gli dissero che da anni non avevano avuto nulla da don Fiorenzo. Domandare era lecito: la carità di un centinaio di franchi.

Ma l'Americano li guatò stupito.

– Oh non ne avete avuto abbastanza del miracolo?




LA FORFECCHIA


Gli uomini e le ragazze – cominciata la mietitura – prestavan opera fuori del fondo, e le donne erano andate tutte e tre al fiume, a risciacquare il bucato, perchè nel rio vicino mancava l'acqua. A guardia della stalla avrebbe dovuto rimanere il garzone; e a servire il vecchio, se lo chiamasse.

Ed ivi, all'ombra del noce, il nonno ottantenne e la bambina di sei anni, l'uno adagiato sulla scranna a bracciuoli, l'altra seduta su la sponda del fosso invaso dalle erbe, guardavano con indifferenza lo spazio conceduto ai loro occhi.

Tacevano i campi nella lunga ora pomeridiana e nella ferma calura della fine di giugno; la casa, vuota delle solite voci, sembrava aspettare in un abbandono tranquillo; e la vita, che urgeva d'intorno e di cui non percepivano l'arcano senso, infondeva nel loro animo una letizia quieta, come se nel mondo ci stessero solo loro due, e così paghi, o come se il mondo fosse un bene dato a lor due soltanto. Anche, per essi soltanto le cincie e le averle pareva che pungessero di pigolii e gridii l'immoto silenzio. E se abbassavano le palpebre e poi le rialzavano, la luce vibrante al limite dell'ombra era quale un fulgido e tremulo velo diffuso sulla terra perchè essi, a scorgerlo, fossero contenti di trovarsi, così, sulla terra.

– Cosa fai, dunque? – domandava sorridendo il vecchione.

E la piccolina rispondeva seria:

– Lavoro. Non vedi? – Si provava a intrecciare spiche di loglio. Nè, attenta all'impresa, poteva curarsi di lui, che cercava attirarla coi più dolci nomi e le promesse più dolci per afferrarla, sollevarla su le ginocchia e simulare di divorarsela in un boccone, vólto contro vólto; i capelli bianchi contro i capelli biondi. – Hamm! ti mangio!

Quelle per lei eran carezze faticose, sì valide braccia aveva ancora il vecchio; ma in compenso, quando lui allentava la stretta, lei scappava sicura di pareggiar la partita.

– Prendimi!

Prenderla? Da anni il nonno aveva perduto l'uso delle gambe. E rideva o sgridava. Sgridava a tutti, fieramente, donne e uomini; quasi pretendesse veder ripartita e accresciuta in ognuno l'energia che non aveva più e l'energia che gli era rimasta, o quasi volesse garantirsi del comando – sebbene costretto a farsi reggere a braccia ogni volta che desiderava mutar luogo. Ma a lei, la figlia minore del figlio minore e prediletto, non aveva mai rivolta una parola cattiva; e guai a chi la toccasse!; e se non l'aveva vicina, sempre gli si offuscava la faccia chiara, intorbidava lo sguardo limpido. Con lei diveniva bambino nei discorsi; nei giuochi le era uguale.

– Vieni qua! Porta qua – le disse – , che ti aiuto!

No. Diffidava; non aveva voglia di resistere alle tentazioni dei morsi, di premere le mani contro la faccia rugosa, per non soffocare, nè di strillare a difesa.

Ma poi la sedusse la proposta di una nuova gabbia da grilli. A comporla occorrevano gambi di erba volpina e non di loglio; e il nonno glieli indicava; e la esortava di non andar al sole a coglierne, e di non piegarli e romperli nello strappo.

Quando bastarono, la gabbia fu presto in ordine. Non appena però fu compiuto il lavoro, si compiè il tradimento.

– Hamm! Ti mangio!

Le strida sbigottirono fin i passeri, su per il tetto.

E il grillo?

Rispondeva il nonno che i grilli di giorno stanno in casa, per uscir la sera a cantare alla luna e alle fate.

E lei, credula, ripigliò la faccenda di prima; decisa a non lasciarsi ingannare mai più.

Ora il vecchio l'udiva borbottare senza ascoltarla e seguiva il ronzo d'un calabrone tra il folto dei rami. E, come la piccolina quando egli protraeva una tiritera noiosa, chinò il capo; e a poco a poco si addormentò.

C'era tuttavia da dubitare che fingesse, per tradir poi di nuovo; e l'altra venne a lui adagio; lo considerò un pezzo, lo toccò a un braccio; fuggì zitta. Dormiva? Ripetè, più ardita. Lui non si mosse; una mosca gli passeggiò sul naso: essa rise, e si convinse che dormiva davvero.

Che cosa fare adesso? Pensava di scappar via; di correre dal garzone, il quale sapeva formar bambocci con la paglia o con la mota; pensava di inseguire una farfalla al sole.

Ma rammentava le minacce materne e l'imposizione di non scostarsi dal nonno; e trovò meglio imitare il nonno. Per dormire allo stesso modo di lui si assise al piede del noce, appoggiata al tronco. E il calabrone che, tra il folto, ronzava per addormentar lei pure, l'addormentò.




Il vecchione intanto sognava. Sognava di essere a mietere; e il frumento era tanto bello che pareva d'oro. Ma le grane d'oro uscivano dalle loppe; cadevano. Egli rampognava i figliuoli d'essere andati a mietere prima quello degli altri, a stagione avanzata; e si sentiva stanco di curvarsi a recider mannelle e di sgridare mentre tutti cantavano.

A poco a poco gli rifluiva nel cuore una soavità immensa. L'aria affocata s'alleviava, si affinava in una deliziosa frescura; e al di là del grano, il campo fioriva sotto il cielo d'un nitido turchino. Rose e garofani; papaveri e gigli. Poi sorgeva un'immagine, che avanzava passo passo: e sorrideva. Sembrava domandare: – Non mi riconosci?

Se la riconosceva! La sua donna, quando era giovane. E gli parve di sognare nel sogno, perchè la sua donna morta mutava il colore dei capelli e il colore degli occhi. E il sorriso, non più triste, la giocondava tutta, trasformandola. Un sogno nel sogno. L'immagine mutava, lentamente e distintamente, in una ragazza bionda, dagli occhi celesti, bellissima. Chi? Era lei; la bambina, ingrandita come se andasse a nozze; felice.

Egli vedeva bene che era un sogno, che non poteva essere già sposa; nondimeno a scorgerla così felice, non godeva: soffriva in fondo al cuore. E l'afflizione cresceva cresceva, e la nipote, che egli amava più di sè stesso, lo guardava in uno stupore muto. Ah ecco, tornava quale doveva essere: bambina; lo chiamava; e poichè, stretto al cuore, egli non ricuperava la voce a risponderle, rompeva in pianto.

Finchè, del tutto desto, il vecchione la vide che piangeva davvero, presso a lui. N'ebbe un insolito dispetto.

– Cos'hai da piangere? Smorfiosa!

Poverina! Aveva ragione di lamentarsi. Soffriva.

– Nell'orecchia? Cosa ci hai nell'orecchia?

– Una formica. – Piagnucolando portava la mano alla guancia, quasi per attenuare il fastidio. La formica, che le era entrata nell'orecchio, era tanto grande!, e pregava il nonno di liberarla dalla pena, che era tanto grande!

– Cávala, nonno!

Il nonno la confortò, già impietosito, ma senza timore. Si fece dare un fuscello a cui si appigliasse l'intrusa, ed estrarla. Nel dubbio però che fosse peggio, le disse:

– Non ci badare! Non è niente!

Anche a lui, mentre dormiva su l'erba, un giorno, era successo lo stesso; ma le formiche hanno giudizio, e, a non stuzzicarle, tornan fuori, riprendono l'andare.





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